
TEDX Mohamed Ba – I sentieri dell’interculturalità per un’umanità in crisi
La mia città non esiste, o meglio, si può attraversare od abitare ogni volta che si attraversi un confine. E’ lì, sta lì finché tu non la trovi o non incontri i suoi strani abitanti, migranti, esuli, esodati e viandanti senza tempo, signori fuori posto che si portano addosso casa e memoria, non certo il luogo di partenza del quale hanno soltanto brutti ricordi.
Io sono incazzato bianco per oggi, oramai maggiore è il vuoto tra cuore e cuore che tra la terra e le stelle.
Eppure, i Grandi Maestri, pittori, poeti e anche profeti ci avevano trasmesso un messaggio di amore e di speranza per prevenire e sconfiggere la paura del diverso da sé. Ahime, vi è poco amore in questo mondo, anzi vi sono sofferenze enormi; milioni di bambini muoiono di fame, non hanno nessuna possibilità di crescere, di studiare, di vivere una vita vera…e le cose, non sembrano molto cambiate fin dai tempi di Abele e Caino, soprattutto nel sud del mondo.
Perchè?
Pensate! In passato, in Africa, avevamo sposato la natura dalla quale traevamo tutti i mezzi di sussistenza. I giovani crescevano all’ombra dell’albero baobab, seduti in cerchio, ad ascoltare il nonno raccontare delle storie. Ogni storia che finiva si concludeva con una morale e la raccolta di tutte le morali diventava il codice di comportamento che essi dovevano sapere a memoria. Grazie a quel lavoro che facevano gli anziani, non si sentiva la mancanza di una scuola moderna, si frequentava la scuola della saggezza.
Anche per questo si usa dire da noi che un anziano che muore sia una biblioteca che brucia. Ogni vittoria era comune ed ogni sconfitta era generale, nessuno osava farsi la doccia mentre il vicino di casa moriva di sete. La ricchezza di uomini era alla base dello “stare insieme”. Il capitale in possesso non si misurava mai in beni materiali ma sempre su ciò che riportava alla persona, alla sua importanza, al suo ruolo. Per noi in Africa, avere non era possedere ma essere consapevole di far parte di un gruppo di uomini sul quale poter contare. L’individuo aveva l’obbligo di tener conto degli altri e considerava se stesso come una perla la cui importanza aveva senso solo considerando l’intera collana. Era vietato pensare “io”, ma molto usuale pensare “noi”.
Il passaggio dall’ adolescenza all’età adulta non era automatico. Tutta una generazione veniva affidata ad un personaggio mascherato che in Senegal si chiama Kankuran e che li porta nel bosco sacro per circa sei mesi.
Impareranno a riconoscere le piante, le fondamenta della società, acquisiranno l’arte della parola attraverso la scelta accurata dei termini da usare per esplicitare un concetto .
Dopo la loro iniziazione, saranno accolti nella comunità come uomini adulti con il diritto alla parola durante le sedute collettive. I Dogon, antico popolo del Mali, considerano la vita in tre ambiti distinti: il mondo visibile che siamo noi oggi, l’universo dove vanno tutti i morti ed il pluriverso dove vanno solo i defunti. L’obiettivo della vita era di fare tutto il possibile per raggiungere il pluriverso che permette di essere ricordati dai vivi attraverso i rituali guidati dalle maschere. Nell’universo invece finiscono coloro che hanno vissuto solo per se stessi. L’islamizzazione, l’evangelizzazione, la colonizzazione e la schiavitù provocarono una repentina cancellazione dei valori morali tradizionali. Gli africanisti si soffermarono solo sull’aspetto esotico delle maschere e delle statue, passando di fianco ai loro significati senza rendersene conto… forse. Oggi, i giovani non si sentono a casa stando in africa e l’Africa non li riconosce come figli propri. La terra promessa è altrove, oltre il deserto, oltre il mare. La memoria incendia il confine degli esuli come sale sulla carne senza pelle. Partire, andare per forse mai arrivare o forse, rientrare diversamente. Chiunque non conosciamo è un libro che aspetta di essere letto ma qui si è scelto di giudicare il libro degli esuli e migranti solo dalla copertina, senza aprirne almeno due pagine. Ho avuto modo di incontrarne tanti con le loro storie, Birane è uno di questi.
La benzina era finita, non c’era niente da mangiare né da bere, avevamo sbagliato rotta, tutto intorno a noi solo l’azzurro del cielo e del mare, avevamo sete. Erano passati ormai tre giorni da quando avevamo finito le scorte d’acqua, ci siamo spogliati tutti, uomini, donne e bambini, nudi e crudi come Dio ci aveva fatti, abbiamo aspettato mezzogiorno e mezza, quando il sole è a picco, allora abbiamo cominciato a leccarci a vicenda, cosi almeno mando nel mio stomaco il sudore del mio compagno. Dopo quei tre giorni, eravamo talmente disidratati che dalla nostra pelle non usciva sudore, ma una specie di olio; tutti hanno cominciato a guardare il mare. Io li ho detto: Ragazzi, il mare no, piuttosto beviamo la nostra pipi, tutti mi sono saltati addosso; come fai a dirlo, la pipì è piena di microbi di schifezze, ci si ammala e si muore il mare invece no perché è bello, trasparente, cristallino. Non mi hanno ascoltato, hanno cominciato a bere l’acqua del mare ma più bevevano e più vomitavano, era come se l’acqua fuoriuscisse da ogni angolo del loro corpo, hanno cominciato a morire tre al giorno. All’inizio non sapevamo cosa fare di quei corpi allora abbiamo cominciato a buttarli in acqua. Legare i corpi fu la cosa più difficile, passare la corda sotto i morti, sollevarne cinque e poi buttarli in acqua i morti pesano troppo quando non si mangia da cinque giorni. In fondo alla barca stava una signora con la sua bambina, avrà avuto due anni e mezza, al massimo tre, Mariama si chiamava, piangeva, piangeva di giorno, di notte, di mattino, di pomeriggio e di sera come un disco che eravamo abituati ad ascoltare. Ad un certo punto mi sono sentito orfano di quel disco. Le ho detto: signora, la bambina?
Lei: dorme…
Come dorme? Sono giorni che dorme allora?
Ho guardato bene ma mi sembrava che giocasse coi suoi capelli, ogni tanto sussurrava qualcosa alle sue orecchie.
Sono andato a guardare e lì…ho visto. La bambina era gonfia come un pallone. Era morta ormai da più giorni ma la signora forse accecata dall’istinto materno non voleva rendersi conto dell’ evidenza, se la coccolava, cantava canzoncine. Ho strappato la bimba, l’ho buttata in acqua e lei ha reagito, si è aggrappata al bordo della barca, sento ancora la sua voce flebile chiamarla… Mariama, Mariama,
Mariama. Poi si volta verso di me e mi dice, le stavo facendo le treccine, volevo che rimanesse bella anche dopo la morte, volevo farle le treccine prima di consegnartela ma io non potevo saperlo. A quel punto si è lasciata andare ed abbiamo pensato che forse meglio cosi. Il pescatore che incrociammo mi lanciò una bottiglia d’acqua, un sacchetto con dei biscotti e continuò a scuotere la testa ripetendo; mi dispiace. Un povero pescatore sunu… tengo famiglia… se ti tiro su mi sequestrano la barca, chi penserà ai miei figli?
Vorrei tanto ma non posso… riavvia il motore e se ne va.
Per quanto i Maestri abbiano indicato la strada dell’amore, continua ad essere considerata un difetto della natura. Ho maturato la convinzione profonda che urge condividere l’instancabile ricerca di una umanità che non si nasconde dietro il velo dei localismi ma che diventa evidente ogni volte che faremo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi, e quando abbiamo cura di non fare ad essi ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.
Ridare una cittadinanza ai valori culturali altrui custoditi nei musei, renderli accessibili a tutti i cittadini coinvolgendo anche i migranti da affiancare alle guide, ci darebbe la possibilità, perlomeno di discernere per poi scegliere tra immaginario collettivo e realtà.
Noi tutti oggi, abbiamo il dovere di cogliere i messaggi che le varie culture contengono, in tutti i casi in cui sono volti verso il bene comune e non invece come strumenti di esclusione.
Vedete, questo non significa abbandonare la propria cultura, ma abbracciarle tutte prendendo da ciascuna di esse ciò che è ritenuto positivo per tentare di realizzare il cambiamento di sé e della piccola porzione di mondo che ci circonda.
Non so come sia possibile trasformare questa mia convinzione profonda in realtà, in vita vissuta, ma se ci riusciremo allora smetteremo di piangere per i nostri morti per incominciare a dare un vero senso a ciò che ci hanno lasciato, donato, ed invitato a sperare, da vivi. In effetti, nella società tradizionale africana, quando ci si incontrava di prima mattina ci si augurava “buona morte” .
Ed io, assieme a voi attorno a ciò che ci riunisce, oso augurarvi buona morte ed arrivederci nel pluriverso.

Mohamed BA
Socio della Fondazione Amen
Mohamed BA, Senegalese di origine ma ama definirsi un “senegaliano”.
Vive in Italia da vent’anni e si occupa di teatro e cinema come regista, attore.
Esperienze nella formazione e nell’educazione all’ Intercultura nelle scuole di ogni ordine e grado.
Sostiene in qualità di socio partecipante la Fondazione Amen, per promuovere il benessere e la crescita dell’individuo avvicinando le persone al tema della fine in tutte le sue declinazioni.