
L’ambivalenza emotiva nell’elaborazione del trauma
La morte vista dai vivi
George M. Beard, 1839-83, neurologo americano fu il primo che coniò il termine ‘nevrastenia’, nuova malattia nervosa sviluppatasi specialmente in terra americana, e L. Binswanger, nel 1896, definì la nevrastenia una malattia prettamente moderna, mentre per Freud questi effetti erano dovuti principalmente all’influsso deleterio della civiltà alla repressione dannosa della vita sessuale dei popoli (o dei ceti) civili operata dalla morale sessuale ‘civile’. Da questa osservazione distingue due gruppi di malattie nervose, le nevrosi vere e le psiconevrosi che nascono in quanto la nostra civiltà è edificata sulla repressione delle pulsioni, cioè l’uomo per ottenere i beni materiali e ideali della civiltà ha dovuto rinunciare – in modo graduale nel corso dell’evoluzione civile – a parte dei sentimenti inerenti la sua personalità.
I fenomeni sostitutivi che compaiono in conseguenza alla repressione pulsionale costituiscono ciò che, ancor oggi, viene definito come ‘nevrosi’ e/o ‘psiconevrosi’.
Sin dalla più tenera età ogni bambino sviluppa la sua crescita attraverso fasi più o meno evidenti di nevrosi. Questo processo accade perché il piccolo non può reprimere con il solo lavoro razionale della ragione e del pensiero le molteplici esigenze pulsionali intrinseche alla sua natura biologica. Quindi la rimozione degli stati di angoscia sono parte integrante del processo di crescita.
Nella storia dell’uomo la civiltà si è costituita mediante la rinuncia ad una parte del soddisfacimento pulsionale ed esige, da parte di ogni nuovo individuo che ad essa partecipa, una rinuncia corrispondente. Gli influssi della civiltà fanno sì che le tendenze egoistiche si convertano sempre più in altruistiche e sociali. In tal senso la famiglia, in quanto circoscritto nucleo civile e sociale ne è un esempio.
Questa progressiva ‘trasformazione’ soggiace non soltanto alla pressione del proprio ambiente civile attuale, ma subisce anche l’influsso della storia civile dei progenitori. Chiamiamo ‘educazione alla civiltà’ questa capacità di trasformazione delle pulsioni egoistiche, in quanto una è innata e l’altra si è sviluppata nel corso della storia dell’umanità.
La coercizione esterna esercitata dall’educazione e dall’ambiente su ogni individuo, contribuisce a trasformare la pulsione individuale verso ‘ideali’ condivisi e quindi favorisce la conversione dell’egoismo in altruismo. Questo processo offre la possibilità di ottenere in ogni generazione una ulteriore modificazione pulsionale che può (o dovrebbe) portare a una civiltà qualitativamente migliore. Nell’uomo gli sviluppi psichici presentano un carattere che non si riscontra in alcun altro processo evolutivo, nel senso che ogni fase evolutiva anteriore continua a sussistere accanto alla successiva a cui ha dato luogo. Grazie alla capacità della riflessione il passato può coesistere – come memoria – con il presente. La capacità della riflessione è una funzione della straordinaria plasticità dei processi di evoluzione psichica, cioè attraverso la riflessione ogni individuo è in grado di migliorare il proprio stato esistenziale attuale. Rivedere il passato permette di acquisire consapevolezza sul presente, quindi evitare errori di comportamento. Ovviamente la modifica è opportuna quando contribuisce ad una maggior funzione e utilità rispetto alla condizione attuale. Ogni apporto che dia risultati qualitativi superiori allo stato precedente, è di per sé un atto creativo. Anche il libero arbitrio, potrebbe essere considerato da questa ottica e correlato al senso di responsabilità. In tal senso è da ritenere significativo il detto: “sbagliare è umano, perseverare è diabolico”.
Come detto sopra, la società civile esige da tutti i suoi componenti una buona condotta pur non curandosi del loro fondamento pulsionale. Grazie a tutta l’educazione socio-culturale ha dunque ‘costretto’ a obbedire alla civiltà un gran numero di uomini, i quali tuttavia non perseguono in ciò un criterio di natura e questo, di fatto, provoca una contraddizione.
L’indagine psicologica indica che la più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali che sono di natura elementare, comuni a tutti e vincolati alla soddisfazione di bisogni originari connessi al ciclo biologico.
L’uomo sociale classifica questi moti in base alla loro relazione con le richieste della comunità umana, attraverso la morale comune.
La morale sociale innesca quindi uno strano fenomeno chiamato ‘ambivalenza emotiva’, cioè la coesistenza, nella stessa persona, di un amore intenso e di un odio violento.
L’irrazionale processo cognitivo ed esistenziale che oggi si manifesta nella nostra società – in modo piuttosto evidente – non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia ma ha radici socio-economiche profonde, e questo determina un circolo vizioso prevalentemente legato alla paura, al dubbio e all’ignoranza, in quanto effetti correlati ad una manipolazione dell’informazione.
In questi ultimi due secoli di consumismo economico-capitalistico, abbiamo creduto che il denaro potesse sostituire i capisaldi umanistici dell’amore e della ‘caritas’ sociale, invece il lungo periodo pandemico e il conflitto bellico in corso hanno fatto saltare tutti i riferimenti razionali e le certezze su cui abbiamo fondato la nostra morale di vita. Da questa crisi di identità dei valori tipicamente ‘umani’ alla fuga nella dimensione dell’irrazionale il passo è breve. Il fenomeno dell’ambivalenza emotiva nasce in quanto l’amore intenso è il fondamento naturale e originario dell’uomo e appartiene alla dimensione ‘ontologica’ in quanto qualità specifica della natura dell’umanità, mentre l’odio violento appartiene ad una dimensione aggiunta, direi aliena, nel senso che non rispecchia il reale fondamento originario dell’uomo, e quindi in contrapposizione a quella naturale ontologica. S. Agostino diceva che l’uomo è portato al bene ma poiché ne è ignorante devia al male che non è nella sua natura umana. La dualità rimane e non consente una razionalità serena. Fatto sta che nessuna specie vivente vive una così forte contraddizione esistenziale.
Questo processo implica una domanda basilare, e cioè se l’essere umano, in qualità di ‘creatura divina’, nasce per un esistenzialismo finalizzato a ‘un essere per la morte’, oppure se l’esistenza può essere concepita come un possibile potenziale aperto in cui ogni uomo può realizzare se stesso attraverso un costante nascere e morire legato all’esperienza vissuta.
Dicendo che qualsiasi esperienza è conoscenza, diamo ad ognuno la possibilità di evolvere se stesso all’interno di un cammino sempre aperto e rivolto alla autorealizzazione.
Al profano le cosiddette malattie mentali debbono fare l’impressione di una distruzione della vita mentale e psichica, in realtà l’essenza del disagio mentale implica la coesistenza con una realtà interna ormai nascosta, una realtà inconscia ma attiva e agente in ogni attimo dell’umana esistenza.
E’ chiaro che questa dimensione emerge con tutta la sua forza soprattutto nella dimensione della disgrazia e tende a spazzar via l’usuale modo convenzionale di considerare la morte, in quanto oggi è un fatto frequente.
Il nostro modo di considerare la morte
In natura la morte è un fatto naturale, incontestabile e inevitabile.
Per quanto riguarda la morte altrui, ad una prima analisi, ciò che si nota immediatamente è che l’uomo civile evita accuratamente di parlarne, solo i bambini non si curano di ciò, forse perché non ancora appesantiti dalle varie morali societarie. Invece noi adulti di fronte alla morte altrui assumiamo un atteggiamento del tutto particolare, un misto tra ammirazione e stupore, come per uno che abbia compiuto qualche cosa di particolarmente difficile. In modo silente evitiamo qualsiasi critica, siamo propensi anche a perdonare gli eventuali torti, e troviamo corretto partecipare alle qualità soltanto. Il rispetto dimostrato per la morte, di cui pure i morti non hanno alcun bisogno, va per noi al di sopra del rispetto per la verità e, per quasi tutti, anche al di sopra del rispetto per i vivi. Il tutto a significare una dimensione quasi ‘proibita’ e ‘oscura’, ma che necessita comunque di una comprensione rispettosa e soprattutto neutrale, per evitare complicazioni sia con gli altri, ma soprattutto con se stessi, in quanto è opinione condivisa che tutto ciò che non viene compreso è altresì subito.
Forse può essere utile estendere l’indagine psicologica a due altri due aspetti di trattare l’argomento morte. Una è quella che si può attribuire alla storia dell’uomo dalle sue origini preistoriche, e l’altra riguarda una situazione che è viva e radicata nel profondo di ogni uomo ma che rimane ‘nascosta’ alla sua coscienza.
La prima riguarda la storia primordiale dell’umanità, che è tutta piena di assassinii. La storia universale che i nostri giovani imparano a scuola, altro non è che una lunga serie di fatti di sangue.
La seconda riguarda la comprensione personale della propria morte che porta l’uomo in generale ad avere un atteggiamento irrazionale e irreale – in quanto inconsapevole – del proprio vissuto esistenziale attuale, ma che, nell’occasione del lutto, di fronte al cadavere della persona cara, fa scattare il conflitto dell’ambivalenza emotiva che invece (apparentemente) non si dà nell’uccisione del nemico.
Queste esperienze, apparentemente distanti, trovano una posizione comune nell’espiazione di un ‘peccato originale’ tramandato sin dalle origini e che si trasforma in un oscuro senso di colpa, spesso trasfigurato in visioni ancestrali, dove la musa ispiratrice sia del sentimento di amore per la persona cara che del sentimento di vittoria per aver sconfitto il nemico, ben presto si trasformano in una presenza oscura e demoniaca che incute paura.
Fatto è che la storia ci riporta tutta una serie di episodi dove al finale è solo l’uomo che paga e sconta il prezzo delle sue azioni, siano queste coscienti o inconsce (anche il figlio di Dio, si sacrifica per sanare il peccato originale, come colpa dell’uomo), cioè la contraddizione atavica è che l’uomo, pur avendo il libero arbitrio per attuare il meglio per sé, di fatto è tanto cieco e ottuso che non riconosce nemmeno chi è venuto a salvarlo.
Tutti i mutamenti emozionali provocati da situazioni traumatiche, anche diversificate (la guerra, il lutto, la malattia, un terremoto, etc), si basano tutti su una unica natura spirituale, di matrice ontologica che fa dell’uomo razionale l’unico artefice sia del proprio bene che del proprio male.
Possiamo dedurre che sia proprio l’appartenenza a questa dimensione ontologica, che portò l’uomo primitivo a immaginare ‘altre’ forme di esistenza dopo la morte apparente.
Solo più tardi le religioni giunsero a proclamare l’esistenza post-mortem come ipotesi per un ‘al di là’ salvifico, e quindi prolungare anche la vita terrena ad un passato connesso a esistenze anteriori (come la reincarnazione e la metempsicosi), tutto allo scopo di togliere alla morte il suo significato di annullamento alla vita e al contempo indirizzare al valore intrinseco alla vita stessa, cioè alla conoscenza della realtà dell’anima, attraverso una coscienza sensata. Gli stessi comandamenti guidano questa coscienza morale e sociale attraverso indicazioni precise quali “non uccidere”, oppure “ama il prossimo tuo come te stesso”, quasi ad indicare lo stato di precarietà e contraddizione insito nell’uomo civile e sociale, qualora questi non persegua l’ordine intrinseco ai valori universali connessi alla vita stessa.
Anche l’antico concetto di ‘Karma’, sembra strettamente connesso all’operato razionale dell’uomo, attraverso il significativo: “Quod in vita facimus, in aeterno resonat”, a ricordarci che proprio in virtù di possedere un’anima, l’uomo è considerato ‘creatura divina’ solo e quando esercita nella quotidianità la sua azione mondana attraverso l’etica della situazione.
Ritorna sia il concetto di corpo e anima, entrambi coinvolti in questa esistenza che chiamiamo vita sia quello di responsabilità verso la propria e altrui vita, per il fatto stesso che l’uomo è un ente intelligente.
L’imperativo “non uccidere”, ricorda all’uomo moderno la sua appartenenza ad una lunghissima generazione di assassini, spesso ispirati dalla fede – in quanto il fine giustifica i mezzi – ma non per questo meno responsabili di lasciare in eredità le pesanti conseguenze legate al senso di colpa. Le aspirazioni etiche dell’umanità, la cui forza e importanza sono fuori discussione, sono state così acquisite attraverso la ragione della forza e non attraverso la forza della ragione.
All’interno di questo panorama, l’intervento della psicologia può essere determinante, sia perché l’etimo della parola stessa evoca una radice ontologica ma soprattutto in quanto unica scienza in grado di far comprendere l’esistenza dell’inconscio e della psiche.
Ciò che chiamiamo ‘inconscio’, cioè la dinamica più profonda della nostra psiche, fatta di istanze pulsionali – non conosce in genere alcunché di negativo, in quanto in esso le opposizioni si conciliano, e quindi neppure l’ipotesi della morte. Significa che la credenza della morte non corrisponde dunque a nulla di pulsionale, ma è una dimensione che riguarda solo la dimensione dell’Io logico storico, cioè strettamente correlata al bagaglio socio-culturale dove ognuno di noi, fin da piccolo, si è formato.
L’angoscia della morte, da cui più spesso di quanto non crediamo siamo dominati, è una condizione elaborata mentalmente e correla con il senso di autorealizzazione esistenziale individuale.
Ci può essere di aiuto il prendere spunto dalla vita degli animali che non hanno la fobia della morte, in quanto vivono appieno ogni istante della propria vita.
Rispetto ad un uomo realizzato, un suo simile frustrato ed in senso di colpa elaborerà la propria vita come un senso di sconfitta e di dolore (anche se ciò non è vero in quanto, potenzialmente, qualsiasi condizione si può migliorare).
Malgrado l’evoluzione tecnologica e sociale, la coscienza dell’uomo moderno, in questo non si discosta molto da quella dell’uomo primordiale.
Come per l’uomo primitivo, anche per il nostro inconscio di uomini civili ed evoluti i due opposti atteggiamenti verso la morte, quello per cui essa viene riconosciuta come annullamento della vita e quello che la rinnega come irreale, si scontrano in una contraddizione.
Ritorna il conflitto provocato dall’ambivalenza emotiva dove all’iniziale manifestazione di sentimento emotivo, quasi sempre segue l’idealizzazione di un senso di colpa feroce e ossessivo.
L’ipotesi possibile per affrontare questo conflitto è fare un razionale approccio e restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete in quanto parte stessa della vita. Cercare sotterfugi o alibi all’interno di ciò che comunemente chiamiamo esistenza, è una illusione pericolosa in quanto foriera di nevrosi.
Tutto ciò che la civiltà occidentale ha accuratamente represso non ha nulla di elevato, anzi, per certi aspetti, rivela una regressione da quella potenzialità intellettiva di cui ognuno di noi è dotato. Fortunatamente ci offre anche la misura per cercare il vantaggio procurato da una maggiore consapevolezza e responsabilità per amare di più la nostra vita individuale. Quindi se vogliamo affrontare una vita piacevole occorre essere disposti ad accettare anche la comprensione della morte, in quanto entrambe parti dell’identica realtà.

di Maurizio Borri, Psicologo e ricercatore
- Socio fondatore della Fondazione HOMO NOVUS
- Socio fondatore della Fondazione Amen
- Cofondatore ALFASSA